Nel non molto lontano 2009 un trio londinese, che risponde al nome di White Lies, fece il cosiddetto botto, facendoci innamorare di un dark-rock moderno, ma che sembrava provenire da qualche tempo fa. Ricordete sicuramente i singoloni del disco d’esordio “To Lose My Life…”, così come ricorderete quante volte avete ballato o canticchiato canzoni come Death o Farewell To The Fairground, per non parlare della title-track.
Tornano a due anni di distanza con quella responsabilità che ogni gruppo ha sulle spalle dopo il successo del primo album, ossia sfornarne un secondo che non deluda le aspettative dei fan e che sorprenda la critica. Perché sostanzialmente è sempre quello l’obiettivo, indipendentemente dal numero di album pubblicati.
“Ritual” è il nome del secondo figlio in casa White Lies e la sostanza non è cambiata così tanto: rimane l’oscurità delle atmosfere “gotiche” che ci fanno pensare ai Joy Division, come pure rimangono i synth, meno potenti e decisi rispetto al primo album, ma che sono comunque una caratteristica chiave del loro sound. I dieci brani contenuti in “Ritual” sono buoni, ma niente di che: non ci sono novità, non ci sono colpi di scena, ma non ci sono nemmeno momenti inascoltabili. L’oscurità è stata coperta dalla nebbia, conosciamo il paesaggio perché siamo già passati per di lì ma non lo vediamo bene. Ecco, sappiamo benissimo quanto i White Lies possano creare stupendi tormentoni, eppure stavolta si intravvedono solamente i tanto attesi singoloni da dj set indie: l’open-track Is Love e il primo singolo estratto Bigger Than Us sono i pezzi più convincenti, ma anche tutti gli altri sono mediamente apprezzabili.
Il secondo album, più che coinvolgere nuovi ascoltatori, strizza l’occhiolino a chi già è stato stregato dal sound dei White Lies e ci convince di una scarsa capacità di reinterpretarsi, con la speranza che questo sia un percorso voluto.
Poco a fuoco, ma comunque da ascoltare.
Michela “Mak” De Stefani per Mag-Music
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