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La pubblicazione di “Vol.2 – Poveri cristi” ha rappresentato un ottimo pretesto per porre alcune domande a Dario Brunori, accomandatario unico della Brunori Sas.
“Poveri cristi” rappresenta il secondo capitolo della tua parabola artistica. Un disco che sin dal primo ascolto appare, ed è, molto più vario nei suoni rispetto a “Volume uno”. Naturale evoluzione artistica oppure autoimposizione per evitare un disco-fotocopia del sopracitato?
Entrambe le cose. Da un lato c’era l’intenzione di non ripetersi, intenzione che consapevolmente o meno ha influito sulla stesura dei brani sin dalla prima fase compositiva. A livello di produzione la cosa si è tradotta in una maggiore cura del suono e degli arrangiamenti. Nel primo disco, al di là dei pochi mezzi con cui era stato realizzato, aveva un senso approcciarsi in modo spartano. Qui invece, proprio per la natura narrativa, quasi cinematografica dei brani, dovevamo lavorare in una direzione differente e sostenere i brani, sottolineandone le varie dinamiche interne.
Continuando a parlare della varietà dei suoni. Si nota l’importante presenza degli archi, in alcuni casi per dare ariosità alle canzoni ed alleggerire i versi (“ma stasera ho voglia di brindare a un’altra storia d’amore per noi che non ci amiamo più” – Lui, lei, Firenze), in altri a dare maggiore profondità alle parole (“perché quest’alba è una benedizione, è un bacio, una carezza, una consolazione” – Una domenica notte). In ogni caso mai invasi, a mio giudizio. Gli archi, se non sbaglio, non erano per nulla presenti su “Volume uno”. A differenza dei fiati, sparsi qua e là in diverse canzoni. Entrambi, in “Poveri cristi”, sono arrangiati da Mirko Onofrio. In che modo ha lavorato? Gli hai dato carta bianca oppure ha seguito tue precise indicazioni?
Difficilmente l’approccio che seguiamo è lo stesso dall’inizio alla fine. La fortuna di lavorare con Mirko e con gli altri musicisti della band è quella di possedere una grande elasticità, di valutare le cose di volta in volta e di lavorare in modo molto interattivo. Io e Matteo (Zanobini, produttore artistico con me dell’album) abbiamo dato inizialmente una direzione di massima a cui tutti si sono più o meno attenuti per quanto riguardava il proprio strumento. Mirko ha poi liberamente tradotto quell’input iniziale seguendo ciò che il mood dei brani, le melodie di base o le frasi cantate, gli hanno suggerito. Alla fine abbiamo deciso insieme cosa tenere e cosa lasciar fuori, cercando di rendere gli arrangiamenti sempre funzionali alla struttura del brano. Penso abbia fatto un lavoro esemplare, riuscendo a coniugare una scrittura colta e ricca di riferimenti, con la forma pop da musica leggera anni ’60 / ’70. Alcune cose mi hanno ricordato lo stile di Reverberi e non è poco.
“Io non so, io non so più, a chi credere” (Lucio Battisti – Le tre verità). Tra le influenze citi Lucio Battisti. Ascoltando Il tuo sorriso ho subito pensato a Le tre verità. Anche per il tuo esplicito omaggio presente nella canzone – il verso sopracitato, sicuramente dovuto ai troppi, meritati, ascolti del genio di Poggio Bustone. Tra l’altro la canti in coppia con Dente, che considera “Anima Latina” come il suo “disco dell’isola deserta”. Ci spieghi la genesi della canzone?
Era un pezzo che avevo scritto da tempo e in tempi non sospetti. A un certo punto l’ho ripescato dalla soffitta perché mi sembrava perfetto per un duetto con Dente. Lui è stato molto bravo a caratterizzare il suo personaggio e a rendere il brano meno finto drammatico e più sagacemente sfizioso. Sono anche molto contento del sound di questo brano, trovo sia il più riuscito a livello di produzione, fra quelli presenti nel disco.
A proposito di Dente. Il 18 luglio 2010 suonaste in coppia al Circolo degli Artisti di Roma nell’ambito delle Sunset Sessions. Vi rivedremo mai dividere lo stesso palco? Magari per proporre live, anche con la sua voce, Il tuo sorriso.
Io spero proprio di si. Non ne abbiamo ancora parlato, ma potrebbe capitare presto. Al momento lui è impegnato con il nuovo album e io devo portare in giro il mio, per cui bisogna trovare l’incastro giusto.
Tra i “poveri cristi” dell’album ci sei anche tu. Bruno mio devo sei è il tuo grido di dolore – sussurrato – per la mancanza di tuo padre. Mancanza che si intuiva già nel “Volume Uno” (di cosa vuoi che scriva? Di cosa vuoi che canti? […] di come è triste Natale senza mio padre – Come stai). Parlare della propria vita, dei propri affetti, delle proprie sofferenze significa aprire il proprio cuore agli ascoltatori. Significa mostrarsi senza difese. Io ascoltatore, tuttavia, continuo ad essere un perfetto sconosciuto per te. Cioè: io, attraverso le tue canzoni, posso dire di conoscerti (più o meno), ma tu non puoi dire altrettanto di me. Come vive questa situazione Dario Brunori?
È una buona domanda. La risposta è: dipende. Dipende da quanto scarto c’è fra me e l’idea che l’ascoltatore ha di me. Se possibile cerco sempre di riportare l’incontro su un piano umano e privo di asimmetrie, e credimi a volte, non è facile. Ma fa parte del giuoco e comunque mi da una grande opportunità di fare esperienza e di raccogliere materiale per nuove canzoni.
Mentre scrivevo queste domande, mi sono accorto che in Rete – YouTube per la precisione – a tre giorni dall’uscita, “Poveri cristi” è presente integralmente. La cosa ti dà fastidio? Oppure la ritieni, a suo modo, una forma di pubblicità?
Penso sia, a questo livello, un ottimo veicolo di promozione e di passaparola mediatico. Il disco quasi sempre lo si compra ai concerti, almeno questa è la mia esperienza e per il momento non mi lamento. Magari fra qualche anno farò come Prince e assumerò Web Sheriff per togliere tutti i contenuti dalla rete, in particolar modo il vergognoso siparietto in barca, venuto fuori nel backstage del video di Guardia ’82.
Christian Gargiulo
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