[adsense]
Esistono cattivi maestri e meravigliosi perdenti, icone che hanno destabilizzato le usanze del primordiale rock’n’roll, traducendo in arte sublime una delle manifestazioni più stradaiole dell’emisfero culturale occidentale. L’immagine in bianco e nero del compianto Jeffrey Lee Pierce con fucile in spalla è forse uno degli scatti più romantici del nostro tempo, e proprio a quell’universo decadente, costellato dalle meraviglie di un’anima sofferta, si rifanno i Circo Fantasma, che con il loro quinto album – dal titolo quanto meno profetico “Playing with the Ghost” – chiudono un ipotetico cerchio, dopo l’espresso tributo al leader dei Gun Club.
A quattro anni di distanza dal precedente “I Knew Jeffrey Lee” è un altro piccolo miracolo a compiersi, nel solco di una tradizione roots americana che sa di balere riconvertite ad oasi per ricurvi rockers. Potremmo essere nel Midwest o in una particolarmente accogliente Berlino in autunno, il mood non cambia: nelle pieghe dei Circo Fantasma alberga un alto sapere. Che all’occorrenza li porta a confrontarsi con altri campioni del lato oscuro, siano i mefistofelici Birthday Party di Nick the Stripper od i più lirici Einsturzende Neubauten di The Garden. Oltre agli originali firmati dalla band è d’obbligo segnalare la presenza di un altro autore criminalmente sottovalutato. Prematuramente scomparso all’indomani di questa sua sanguigna testimonianza, l’ex Swell Maps Nikki Sudden illumina “Playing with the Ghost” con una manciata di brani co-firmati con gli stessi Circo Fantasma ed interpretati secondo la sua sobria e malinconica vena. Phil Shoenfelt (autore del romanzo culto “Junkie Love”) è l’altra presenza di spicco: due i suoi contributi vocali, uno in particolare – ‘The Devil’s Hole’ – da brivido, uno stomp rock’n’roll intriso di soul che sembra rovistare nelle viscere della più arcaica musica del diavolo. La celebrazione è ancor più riuscita se al death party (perdonate la citazione dei Gun Club) viene invitato un altro beautiful loser come Jeremy S. Gluck, già voce di quel prodigioso combo garage-power-pop a nome Barracudas, che incendia le polveri di The Road of Broken Dreams, un brano che già nel titolo incarna una filosofia di vita, dove spicca inoltre lo splendido organo vintage suonato da Amury Cambuzat, leader dei transalpini Ulan Bator, presente anche nella rivisitazione di Marry me (Lie! Lie!) dal primo album dei These Immortal Souls di Rowland S. Howard, altro Birthday Party che troppo in fretta ha salutato quest’esistenza terrena. L’impressione è che il gruppo lombardo – al secolo Nicola Cereda (chitarre, voce), Roberto De Luca (basso) e Carlo Cereda (organo, piano, fisarmonica) – si sia confrontato in maniera del tutto spontanea con i suoi miti, staccando con questo album numero cinque il lasciapassare definitivo per le ribalte internazionali.
[adsense]
0 comments