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Le conseguenze di un’evoluzione.
Torniamo indietro di più di due anni, precisamente nel 2009. In un momento come la pubblicazione di un disco come “Semper biot” ha sancito la definitiva fine del letargo dalla durata di due lustri in cui era caduto Stefano “Edda” Rampoldi, storica voce dei Ritmo Tribale, non si poteva che sollevare uno stupore generale, una certa felicità nel denotare il ritorno sulle scene di un cantante che, nel suo silenzio, se l’è vista con la droga a suon di spiritualità. Uno stupore che purtroppo, piano piano, si è un po’ ridotto, visto che l’album in questione, per quanto buono, non si è dimostrato poi così eccezionale. Ma, si sa, per una rientrata in scena di questo tipo sono necessari i continui tentativi di miglioramento da parte dell’artista in questione, e deporre immediatamente ogni fiducia sarebbe una cosa sciocca.
Guardando ai giorni nostri, “Odio i vivi” è il titolo della seconda fatica di Edda, scritta sempre con l’amico Walter Somà, e profetica sin dalla copertina. Un album che parla di donne, della fuga da una realtà in cui è sempre più complicato riconoscersi, ma in particolar modo della disperata ricerca di dialogo, dell’abbattimento di un’aridità preponderante ma del tutto inefficace, parafrasando il già omaggiato e fu Moltheni. E tale fuga si traduce in dieci canzoni, nel cui livello generale è ben evidente un grande salto in avanti, rispetto al precedente lavoro.
“L’amore diventa merda dopo due settimane, i miei amici hanno figli, figli, figli… io sempre fame“.
È così. Mentre contraddizioni e scherzi del destino si succedono continuamente, vivere i propri amplessi con svariate spasimanti, ognuna a modo proprio, è la risposta a questi continui scherzi del destino. Non conta se siano attrici hard (la title-track, con un videoclip che omaggia la “Venere bianca”), mistress (Emma), muse ispiratrici, come Angie per i Rolling Stones (Anna), o creature sulle quali abbandonarsi e morire (Tania, con tanto di accenno introduttivo a My Way di Frank Sinatra), lasciando di sé, alla fin fine, una creatura al mondo, il “figlio di Edda“, conosciuto come “Omino nero“. Perché il rapporto con la donna non si pone nessun limite.
“Ma forse è proprio questo che piace a te“.
Ha una funzione fondamentale il piacere del contatto. Immancabile e liberatorio. La vicinanza (Il seno) che si scontra con la lontananza, fatta di battibecchi (Topazio). La stessa lontananza che ospita le bislaccherie che fungono da sottofondo alle sensazioni e che sostituiscono la sola chitarra di accompagnamento di “Semper biot”, dalla sega musicale di Francesco Arcuri alle percussioni di Sebastiano De Gennaro, fino al quartetto EdoDea e all’attivissimo Alessandro “Asso” Stefana. Contribuendo positivamente a quello che è un ottimo risultato finale, malgrado le leggere e involontarie scivolate avvenute tanto nella dedica a un chitarrista suo collega e condivisore della stessa etichetta (Gionata, il Mirai che, non a caso, risulta anche co-autore) quanto nella retrospettiva di un amore platonico (Marika).
Con “Odio i vivi” trova terreno fertile la dimostrazione che il talento di Edda non manca alla voglia di riuscire fuori piano piano dal suo sonno, da buon Tribale quale, nonostante tutto, è ancora, nel cuore.
” … buon compleanno e buon Natale alla tua divinità”.
Cambiano le sonorità, ma non cambia il tragitto la cui origine è da rintracciare nel periodo di “Bocca chiusa” e “Kriminale”.
Gustavo Tagliaferri
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