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Fare una passeggiata nei pressi di una landa desolata che fa tornare in mente minuziosamente il Far West, respirare la sua aria, buona o meno che sia, perdersi tra una sparatoria e un giro in compagnia del proprio cavallo, vedere i granelli di polvere farsi più fitti mentre procede il cammino e allo stesso tempo immaginarsi la giusta colonna sonora da abbinare a un’esperienza simile. Tutto ciò è consequenziale alla discesa da quel treno che, tra andata e ritorno, collega l’Italia all’America. Ma è una cosa che riguarda un po’ tutti o solo tre misteriosi figuri conosciuti con lo pseudonimo di Guano Padano? Nonostante i primi, i riflettori andrebbero puntati principalmente sui secondi.
Per il chitarrista Alessandro “Asso” Stefana, il bassista Danilo Gallo e il batterista Zeno De Rossi, già con Baustelle e Vinicio Capossela, tornare sulle scene musicali a più di due anni di distanza dal loro disco d’esordio (sarà un caso il fatto che il disco non si chiami “2” solo perché il secondo in studio?) è come tornare a fare visita al luogo del delitto, come dei fuorilegge talmente fuorilegge da farsi sentire anche altrove, e non solo nei confini della zona dove tutto per loro ha avuto inizio. Prendere a piene mani il buono proveniente da una terra straniera e rimaneggiarlo a modo proprio. Con le giuste, e non certo da sottovalutare, lodi da parte di Marc Ribot.
Come da lezione del buon Sergio Leone, a un nuovo disco corrisponde un nuovo ipotetico film. Se può esserci un’introduzione, non può mancare successivamente la presentazione con i suoi titoli di testa. Ruolo che sta a pennello al pianoforte isolato di Last Night, che nasconde, ma solo per poco, un desiderio di fuga, di euforia, di darsi alla pazza gioia, lasciandosi guidare dalla frenesia.
Ecco, giunge Zebulon e questo desiderio comincia a farsi sentire, sia quando c’è da esagerare, nella corsa per il “Gran Bazaar“, che quando, come se si stesse aspettando che scocchi un mezzogiorno di fuoco, c’è da trovarsi faccia a faccia con qualche “One Man Bank“, per poi dopo tornare vittoriosi (El Cayote) e vogliosi di ballare in un campo di grano al ritmo di un banjo (Bellavista). Non sia mai poi che, con un tocco di Oriente, ci sia da prepararsi per un’altra impresa da portare a termine (Miss Chan), magari da soli, magari in compagnia del sopracitato Ribot, ma con riffs di chitarra sempre pronti a lasciare un segno. Anche questa è la vita in una pellicola di simile caratura.
Ma questo Far West non è fatto solo di lunghe camminate, ma anche d’introspezione e aggressività, paura e desiderio. I fiati e gli organi di Gumbo, ideali per quando viene la sera. I fantasmi fumosi di Lynch, che sotto un’inaspettata drum-machine non nascondono la loro presenza. La malinconia che si fa breccia nell’anima sotto forma di fisarmonica quando c’è da pensare a “Nashville“. E dove c’è stato il fischio di un gigante come Alessandro Alessandroni adesso c’è il carisma di Mike Patton, nell’unico brano cantato dell’album, Prairie Fire. I brividi si fanno strada lungo la pelle, e ritorna alla mente l’Oriente, questa volta come dubbio in quanto a meta futura, mentre si ode un affascinante contrabbasso proveniente da una jam session jazzata il cui titolo è dirompente: Un occhio verso Tokyo.
E andare via, con soddisfazione, sulle note vibranti di una Sleep Walk, originariamente in mano a Santo & Johnny, ora coda la cui chitarra, dal tocco hawaiano, lascia presagire un periodo da trascorrere tra le onde del mare, prima che sopraggiunga la scritta “The End“. E prima che venga fuori il terzo capitolo della storia dei Guano Padano. Ma apprestare le cose è quantomeno inutile, quello che si ha non lo si godrebbe appieno.
Giù il cappello? No, proprio giù la testa, tanto per rimanere in tema! È d’uopo quando c’è da fare gli inchini.
Gustavo Tagliaferri per Mag-Music
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