Ascoltando l’ultimo lavoro degli A Whisper in the Noise pare di essere tornati indietro, ai primi Sigur Rós.
Quello che salta subito alle orecchie è la durezza oltre che la freddezza di questo lavoro, dove i pezzi vengono poggiati su un telo di naturalezza e le voci si accavallano e s’intrecciano alle melodie di West Thordson e Sonja Larson (grande ritorno). Sembra quasi di ascoltare i Dead Can Dance privati del proprio animo orientale, qualcosa di più nordico e più naturistico, nonostante i ragazzi siano del Minnesota, che, ecco, con il nordico non è che abbia troppo a che fare. Ma noi ci siamo abituati, è l’epoca della globalizzazione, è l’epoca in cui Steve Albini produce i migliori album, compresi i primi lavori degli A Whisper in the Noise. Questo no però, e si sente.
La prima parte del lavoro degli A Whisper in the Noise, seppur abusando di vecchie tradizioni che erano proprie del sepolto post-rock (delay, violini, riverberi e voci sospirate) riesce a non annoiare completamente; infatti qui vengono tatticamente piazzati un paio di pezzi adatti ad un Irish Pub aperto a pranzo, quali All My e Sad, Sad Song, che una volta giunti a termine ci fanno ripiombare nella medesima ambientazione in cui ci trovavamo.
È che, nonostante tutto, hanno talento i ragazzi. Questi pezzi sono esattamente ciò che vorremmo ascoltare se facessimo parte del cast di un film introspettivo americano; da ascoltare in cuffia sotto la pioggia mentre si cammina per le strade della città schivando le spalle di alcuni frettolosi impiegati incravattati. Roba da ragazzo interrotto, insomma.
Eliana Tessuto
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