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Il 1983 è una data storica per il mondo dell’heavy Metal essendo l’anno che diede alla luce i capolavori “Piece of Mind” degli Iron Maiden e “Melissa”, frutto del genio creativo dei Mercyful Fate. Gli In Solitude lo sanno benissimo e, a distanza di trenta anni, provano a rendere omaggio a quell’annata meravigliosamente maledetta.
La voce magnetica ed evocativa del cantante Pelle “Hornper” Åhman ricorda, in modo molto diretto, quella dell’inimitabile King Diamond e gli stessi testi ricalcano la strada dei Mercyful Fate. Il risultato, non particolarmente interessante, risente in modo incisivo del paragone diretto a cui siamo indotti. Mentre con il Re Diamante le liriche, fortemente legate a tematiche oscure, sono alimentate dal delirio di una voce che alterna momenti di pienezza a un falsetto amabilmente psicotico, in quest’album la voce mantiene una sua straniante vacuità, senza però mai raggiungere picchi di genio e follia.
Il brano Witches Sabbath ne è un esempio lampante: un vero ossequio alle tenebrose e inquietanti melodie del cantante danese, ed è, senza dubbio, una delle tracce meglio riuscite. Strumentalmente l’album risente, come già accennato, anche dell’influenza della band britannica degli Iron Maiden. La traccia 7th Ghost esemplifica al meglio il concetto, offrendoci una delle cavalcate tipicamente maideniane, con il basso di Gottfrid Åhman in pieno stile Steve Harris e le chitarre di Lindström e Gustavsson a sfidarsi in duelli solistici com’era uso tra quelle di Dave Murray e Adrian Smith. I ritmi incalzanti e l’ottima tecnica chitarristica dei due svedesi non riescono comunque a coprire il fabbisogno energetico dell’album, che risulta apprezzabile ma poco potente e incisivo.
Ci saremmo aspettati una maggiore creatività nell’unire la tempra sulfurea dei Mercyful Fate alla vivace esplosività dei Maiden, ma “In Solitude” è stato schiacciato dalla storia del metal senza riuscire a dirci granché sui suoi creatori.
Adrian Nadir Petrachi
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