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“Che male c’è a farlo in tre? Che male c’è a farlo in sei? Che male c’è a farlo in diecimila?” (Tre). Ci hanno provato, i Marta sui tubi, a mettere in scena a Napoli una gigantesca orgia. E se non ci sono riusciti, o ci sono riusciti solo in parte, la colpa è da imputare alla location del concerto.
Apprezzato per la buona acustica, a patto che si evitano le prime file, il Trianon è un teatro storico: e ha ragione Giovanni Gulino a sentirsi “emozionatissimo“. Ma il teatro non è per niente la cornice ideale per assistere a un loro live, e i fan se ne sono accorti. Quando è partito il ritornello de L’unica cosa, si avvertiva la loro voglia di eiaculare in un pogo liberatorio interrotta solo dalle comode, inutili sedie della platea. Ed eravamo solo alla quarta canzone.
I Marta hanno proposto quasi interamente l’ultimo “Cinque, la luna e le spine“, comprese le sanremesi Dispari e Vorrei, alternando con sapienza il nuovo repertorio a canzoni di un passato più o meno recente (Cromatica, Cinestetica, Perché non pesi niente). La loro, è stata una prova robusta ed elegante. Tutto ha funzionato a dovere: la ritmica folle delle chitarre di Carmelo Pipitone, le trame pennellate dalle tastiere di Paolo Pischedda e dal violoncello di Mattia Boschi, la voce di Giulino che ha dalla sua una tavolozza di colori presa a prestito direttamente da Vincent Van Gogh.
Il pubblico ha cantato a memoria dall’inizio alla fine. Ha applaudito con convizione. Ha “benedetto” i soldi spesi per il concerto. Ha accompagnato con gli accendini la conclusiva Vecchi difetti. E non ha resistito a maledire le sedie per avvicinarsi al palco. Per lanciarsi infine in un corpo a corpo cercato, desiderato. Voluto. Perché, è vero che eravamo a teatro, ma – cavolo!!! – davanti a noi c’era pur sempre la bella Marta.
Christian Gargiulo
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