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Mettiamo che gli Zen Circus, nel loro stato di “Nati per subire“, abbiano deciso di andare fino in fondo nella decisione di optare per un anno sabbatico. Se il batterista Karim Qqru, mettendo in un paiolo elettronica, tradizione e varie ramificazioni del punk, ha fatto sì che La notte dei lunghi coltelli fosse un progetto ben riuscito, di impatto forse difficile, ma decisamente efficace, sta ad Andrea Appino trovare un canale di sfogo ideale per dare voce alle proprie paure, alle proprie emozioni al di fuori del gruppo che tanto lo caratterizza. E se, proprio per questo, è necessario attrezzarsi per cercare di realizzare al meglio l’obiettivo prefissato, è altrettanto d’uopo servirsi di una band di sostegno fatta di pezzi del Teatro degli orrori (Giulio “Ragno” Favero, anche produttore, e Franz Valente), nonchè di violinisti in genere molto capaci (Rodrigo D’Erasmo), ed ecco i compagni d’avventura adatti per portare in scena quello che è l’atto solista della propria vita d’artista: “Il testamento“, appunto.
Se ad una prima impressione sembra che la vena sarcastica e burlesca che generalmente viene fuori dal Circo Zen venge apparentemente sacrificata, il fatto che a soppiantarla adeguatamente sia una lucidità e una qualità di testi sempre ineccepibile, ben tenuta anche da musiche che riescono dove l’ultimo Teatro aveva fallito, senza cozzare con il rischio di ingenti danni, risulta essere solo un enorme pregio. Emerge una realtà, quella di Appino, dove le proprie esperienze di vita sono tutt’uno con i fatti di tutti i giorni, i ricordi si fanno musica ed influiscono all’interno di ogni singola composizione, passando dalla struggente ninna nanna rovesciata Che il lupo cattivo vegli su di te al ricordo dell’amatissimo Mario Monicelli, che rivive nella title-track e nella durezza di Solo gli stronzi muoiono, da accenni di ballate presenti in Fiume padre, Questione d’orario e la soffice, eppure disturbata, I giorni della merla allo spirito dylaniano di La festa della liberazione, dall’elettronica della conclusiva 1983 agli sbalzi d’umore di Specchio dell’anima, vagiti di certo thrash-metal (!) di scuola 80’s portati ai giorni nostri, e Schizofrenia, fischio morriconiano che lascia la strada sgombra ad un forsennato punk (con tanto di rivoluzione francese in sottofondo), fino al grezzo southern-rock di Tre ponti e ad un ideale sunto generale come Passaporto. Non c’è un episodio che non abbia una sua forma di fascino.
Con o senza gli Zen Circus, il cantante pisano non lascia affatto da parte la verve che lo caratterizza, e si rivela essere, diversamente da certe presunte rockstars sul viale del tramonto o nate con pochissime capacità, una felicissima eccezione, uno di quelli che nobilitano i tanto chiacchierati anni zero, e il cui “Testamento” è tanto tagliente quanto valido. Aspettando che il circo, prima o poi, torni in città.
Gustavo Tagliaferri
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