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Valli a capire questi norvegesi. Non solo “Solar Anus” – lo ammetto, primo disco mai ascoltato antecedente un recupero a rotta di collo (consiglio vivamente da “Revenge” in poi) – è riuscito ad imporre la band nel panorama metal underground europeo come una delle più solide e innovative realtà alternative/noise, forse anche a causa del forte odore di epico che esala da una ricetta di base ancora melvinsiana, ma sono anche riusciti a sfuggire alle maglie stringenti del cultismo a tutti i costi vincendo addirittura un Grammy, cosa che deve averli sparati definitivamente nel firmamento delle produzioni con gli Steve Albini del caso. Mi piacerebbe poter dire anche per merito mio, visto che una recensione un po’ fanfarona ma compiacente come quella che ho scritto i primissimi tempi qui ha fortunatamente coinciso con la definitiva celebrazione della band. E poi è bello essere la Fysisk Format, potersi permettere di lanciare nel mercato dischi di volta in volta più incazzati e portare l’uditorio a produrre neologismi sempre più fuorvianti mentre il duo, di fatto, viaggia compatto verso una formula che più radicale ed essenziale non si può.
Anche a distanza di meno di due anni la band pare essersi rimessa in forma, al livello che la resa sonora di questo disco tanto riesce a raggiungere nuove imperiose altezze quanto a schiantare brutalmente il sigillo delle bassezze noise e doom, dal quale fuoriesce l’inesorabile ferocia di un suono bastardo proprio di chi è cresciuto cercando costantemente l’estremo come concetto estetico, fuori e dentro il metal, e tutto questo come prima non ci si sarebbe mai aspettato. E poi è aumentato l’easy listening (e questo mi piace un sacco) e le collaborazioni: Emil Nikolaisen al basso e alle seconde voci (anche alla produzione), e la mitica Laura Pleasants dei Kylesa (la classica band bruciata troppo in fretta) a spartirsi il microfono in Arrabal’s Dream. Crescendo che accompagnano la cavalcata luciferina per tutte le otto tracce (picco in The Horns of the Devil Grow), prima che l’ultima doppietta vi finisca senza pietà.
Come i Melvins nello scantinato indemoniato dei Bathory. Come i Rabbits in una DeLorean destinazione Detroit 1969.
È vero che la faccio facile e mi prende bene troppo presto ma, se possibile, l’omonimo degli Årabrot non ha nulla da invidiare a “Solar Anus”. Un disco che spazza via, a dicembre, ogni cosa ascoltata prima.
Nunzio Lamonaca
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