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CD/LP – Warner Bros. – 12 t.
Quelli come Matt Bellamy non possono essere amati spassionatamente oppure odiati ad ogni costo. L’unica scelta possibile è continuare a sopportarli nella loro smisurata megalomania, custodendo come tesori le tante cose buone che escono da teste vulcaniche di questo genere.
Dopo averci assopito con le sinfonie da camera e i ritornelli conturbanti alla Undisclosed Desires in The Resistance, e averci preso bellamente per il fondoschiena con le cover di Michael Jackson e le poche schitarrate di The 2nd Law, i Muse avevano promesso: il prossimo disco sarà tutto un fiorire di chitarroni cattivi. La promessa, allora è stata mantenuta?
Andiamo per ordine: prima di tutto c’è da dire che Drones è un concept album vero, uno di quelli dal quale estrarre singoli alla cazzo di cane non è proprio facilissimo. Finalmente la premiata ditta londinese torna a investigare i temi tanto cari a Bellamy, vedi la politica, il controllo di massa, la libertà individuale. I drones del titolo, d’altronde, non sono solo quelli che bombardano i terroristi cattivi dall’altra parte del mondo o quelli che facciamo svolazzare nei parchi cittadini, ma siamo noi, esseri umani troppo chiusi nella propria routine per rendersi conto di quello che accade intorno.
Il disco si apre con la fin-troppo-sexy Dead Inside, giusto antipasto a base di coretti ululanti e synth. Subito dopo l’accoppiata [Drill Sergeant]/Psycho, che nonostante il corpulento riffettone blues non riesce a scrollarsi di dosso le risatine indotte dalle urla di sottofondo di un aspirante sergente Hartman, una roba cheesy che manco fossimo a Broadway: va bene il concept, ma a volte il troppo stroppia. Sicuramente il punto peggiore del disco, ma la buona notizia è che da qui si può solo risalire.
Mercy è un palese caso di auto-coverizzazione, ma di quelli fatti così bene che alla fine non ci rimani nemmeno male e ti lasci cullare dalle sventagliate di tastiera sotto al chitarrone del ritornello; poi arriva Reapers, e iniziamo a ragionare: certo, nei primi dieci secondi Bellamy crede di essere Van Halen e si diverte a rifare Hot for Teacher, ma i successivi sei minuti tutto fila per il verso giusto, con chitarre sincopate e graffiante come le volevamo da anni. Nel finale di brano esce fuori una roba che nemmeno i Rage Against the Machine dei migliori anni: ecco dov’erano finiti i Muse di Citizen Erased; chitarra regina anche in The Handler, che lenta (ma pesante) come un elefante procede sicura su un letto di timpani e bassi ciccioni: l’intermezzo è un capolavoro di sezione ritmica, pronto a esplodere negli ululati straziati e strazianti di un lungo finale; facciamo finta che lo skit [JFK] non esista, e, vi prego, passiamo a Defector, che con quelle chitarre caricate a molla è un ultimatum nemmeno troppo nascosto: chi non salta, Justin Bieber è; Revolt pare un b-side dei Darkness, emozionale e pasionaria ma noiosetta, mentre Aftermath, mi si perdoni l’ennesima analogia, inizia come One degli U2 ma continua senza la stessa ispirazione, abbandonandosi a coretti buoni per le feste natalizie.
E (quasi) alla fine arriva The Globalist. Si parte tipo space cowboys con un intro western uscito fuori da qualche film di Leone/Tarantino. Ma dieci minuti sono lunghi, e la noia comincia a farsi sentire. Poi però qualcosa succede, e l’unica cosa che ti viene in mente è BRUTTI FIGLI DI PUTTANA, perché tirare fuori una martellata di rock così bestiale, all’improvviso, è interpretabile come attentato alla pubblica sicurezza; con la title track di stampo gregoriano cala il sipario, un modo soffice e coccoloso per spegnere qualsivoglia istinto di rovesciare governi ispirato dal resto del disco.
Drones non è l’album perfetto, ma è il miglior compromesso che Matt Bellamy sia in grado di raggiungere tra la sua megalomania operistica e il rock a cui ci ha abituato così bene negli anni passati. Le montagne russe di questo disco sono un continuo salire e scendere, sia a livello atmosferico che qualitativo. Ma la cosa che davvero conta è che, anche a corsa finita, la voglia di fare un altro giro è ancora lì.
Dario Marchetti
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