Kristian
Tingri – Anno 2000
I pilastri si sollevavano verso il cielo, dai picchi innevati, là dove gli antichi popoli credevano dimorassero gli dei. I fiori di loto sbocciavano in un ciclo infinito di vita e morte identificato anche come Samsara, in un’atmosfera bianca e immacolata, che evidenziava la serenità senza fine che sbocciava nel cielo come il nirvana. Kristian stava osservando con il binocolo la sua meta: il monte Everest, uno dei sette summit del pianeta. Era giunto li, nella città di Tingri con due ricercatori, che avevano deciso di accompagnarlo verso la cima. Ma perché voleva salirci? Il perché non lo sapeva ancora, ma era certo che una volta iniziata la scalata gli sarebbe stato tutto chiaro. Voleva risposte su se stesso, sulla sua vita e soprattutto voleva avere la spinta per ricominciare, per dimenticare la sua vita precedente. E quale migliore modo di farlo se non accomunarsi con lo spirito della montagna e chiedergli redenzione? In quella città, era possibile accedere alla base principale per iniziare la scalata sulla montagna, dove vivevano soltanto 540 persone.
Chiamarla città era forse un po’ inappropriato, ma dopotutto non c’era anima viva per molti chilometri a quella parte. Gli abitanti del posto erano abbastanza abituati a ricevere le visite da parte di chi si voleva inoltrare verso il Chomolungma, era così che nel Tibet veniva chiamato l’Everest.
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Ma Kristian non era li per caso, tutto era iniziato quando due settimane prima, si era preso una sbronza nel suo pub di fiducia. Aveva appena chiesto di lasciare li la bottiglia quando un uomo si avvicinò al bancone attirando l’attenzione del locandiere.
«Mi dia lo stesso suo…» e lo servì con un bicchiere di scotch. «E’ lei Kristian Mallory?» Gli chiese.
Noncurante Kristian riempì di nuovo il suo bicchiere e bevve ignorandolo completamente.
«Lei ha scalato il monte Everest nel 97 è cosi?» Domandò di nuovo.
«Si e allora?» Rispose Kristian noncurante.
«Mi chiamo James Huges, sono un ricercatore dell’istituto di Geofisica Lotus. La stavamo cercando signor Mallory…»
Kristian bevve un’altro sorso di scotch «E per quale motivo?…»
«Vede signor Mallory, la Lotus sta organizzando una spedizione sull’Everest e abbiamo bisogno di un esperto che guidi la troupe durante l’esperimento»
«Non sono più uno scalatore…» E bevve di nuovo.
James guardò l’uomo ormai distrutto dall’alcool e subito dopo frugò nella tasca della sua giacca e mostrò lui una foto «Anthony Gregson, Steve Sunders, Bryan Cooper e Gregory Mason…» Disse James «Questi erano i suoi compagni nella spedizione del ’97. Lei è stato l’unico sopravvissuto di quella scalata ed è riuscito a scendere a valle. Ecco perché si trova qui a sbronzarsi ogni sera… pensa che sia colpa sua, pensa che affogare il suo dolore nell’alcool possa alleggerire il peso delle loro vite sulla sua coscienza. Ma la verità è che non è colpa sua, è stato soltanto uno sfortunato incidente»
«Pensi davvero di conoscermi?» Gli domandò Kristian sogghignando con aria di sfida.
«La conosco abbastanza per dire che lei ha bisogno di un obiettivo… uno scopo. E io signor Mallory, posso darglielo…»
Kristian lo guardò poi scosse il capo rassegnato e bevve di nuovo un sorso di scotch.
«La foto puo’ tenerla… a me non serve» Disse James sorridendo, poi lasciò i soldi sul bancone e andò via. Kristian rigirò il bicchiere tra le mani e guardò la foto. Erano tutti e cinque li, sorridenti e pieni di vita. Avevano scattato quella foto prima della scalata e nessuno di loro si sarebbe mai aspettato quel tragico esito. Posò dunque il bicchiere per la prima volta nella serata e prese la fotografia in mano, fissando gli occhi allegri dei suoi compagni e la girò. C’era un numero di telefono, quello di James Huges.
Hyrma
Los Angeles – Anno 2194
Dalla finestra della sua classe, Hyrma riusciva a vedere il panorama urbano e caotico di Los Angeles, circondata dalle automobili che volavano nei perimetri di sicurezza e si avviluppavano attorno ai grattacieli superando le nuvole di smog. Gli studenti del tempio sacro erano silenziosi, inespressivi, vestiti con lunghe toghe bianche candide e cappucci che coprivano i loro volti. Toccavano schermi inesistenti, visibili solo tramite le retine artificiali installati all’interno dei loro chip neurali. Hyrma distraendosi, osservò i suoi compagni muovere le dita e spostare l’aria e ai suoi occhi sembravano tutti delle bambole senza anima.
“Ma cosa sto pensando?” Si disse tornando ai suoi noiosi compiti. Al termine delle lezioni aveva mosso così tanto le dita che gli facevano male e guardando nuovamente la finestra, notò che il crepuscolo aveva penetrato la coltre di smog e aveva tinto tutta la metropoli in una tonalità mogano. Quello era il colore che sottolineava la monotonia delle giornate trascorse nel Tempio: il luogo dove gli studenti di tutte le età minori andavano a studiare ogni giorno. E infatti un paio di secondi dopo aver realizzato che l’ora era giunta, un segnale acustico e una meccanica voce gentile, annunciò il congedo di tutti gli studenti.
Scesi nelle strade Hyrma alzò lo sguardo al cielo e notò che le nuvole di smog si stavano diramando e mostravano la stella più radiosa del cielo, l’unica luce che colmava quella opprimente oscurità degli ultimi giorni. Il suolo era ancora umido per via delle precipitazioni, ma i sistemi di protezione per la circolazione avevano già fatto evaporare le strade principali. Ora che le ripetute spiegazioni dell’Oracolo erano terminate, Hyrma era libero di scoprire il suo viso e di tornare alla vita di tutti i giorni, ma per lui non era così facile. Si guardò attorno e vide i suoi coetanei togliersi via i cappucci e sorridere ai loro fidanzati o ai loro amici, ma Hyrma era l’unico a restare coperto, per lui non era mai facile mostrarsi e privarsi di quella maschera, di quella protezione che lo aiutava a colmare quel vuoto che lo tormentava ogni giorno. Restò dunque nascosto e nonostante le persone trovassero il suo atteggiamento bizzarro, Hyrma continuava a celare il suo volto e camminare con sguardo basso. Nemmeno quando era solo nella sua abitazione si scopriva, si sentiva perennemente osservato e a disagio. Costantemente valutato e messo sotto pressione da doveri di una società distorta, controllata da un apparente ordine delle cose. Ma finalmente dopo tanti sforzi e sacrifici, grazie anche ai suoi doveri assegnati dall’Oracolo, era riuscito a ottenere un permesso speciale, per accedere ad uno dei luoghi più pericolosi di tutta Los Angeles. Un luogo dove si diceva erano nascosti coloro che praticavano arti segrete e ormai proibite da tempo. Quel posto era la biblioteca.
Laura
Svezia – Anno 1431
La sua immagine era riflessa sul suo grande specchio ovale. Un viso malinconico che non conosceva felicità da molto, molto tempo. Laura era una ragazza di una rara bellezza, dagli occhi celesti come il ghiaccio e la pelle diafana. Ogni mattina si pettinava la sua lunga chioma bionda e fissava se stessa, senza mai riuscire ad apprezzare il suo aspetto. Quel giorno era il suo sedicesimo compleanno, sedici anni di reclusione dove le sue istruzioni, le sue visite, la sua intera vita era stata confinata all’interno di quella stanza, in quell’ antico maniero di baroni e conti. L’unico contatto che aveva con l’esterno, era una finestra ogivale, che si affacciava su un bellissimo panorama di colline e immense foreste di pini. Quello era un giorno plumbeo, colmo di nubi e prossimo alla pioggia, ma questo non impediva alle genti del villaggio di lavorare e ai bambini di giocare nelle piazze.
Laura, seduta sulla sua sedia, fissava invidiosa la vita che scorreva a due passi da lei, un mondo che Laura osservava ogni giorno e studiava, costruendo nella sua mente storie incredibili o malinconiche poesie. Questo era ciò che faceva ogni giorno: i suoi occhi esistevano soltanto per osservare la vita degli altri. Si sentiva incorporea, priva di scopo e avrebbe voluto essere come quel canarino che ogni mattina si posava sul davanzale della sua finestra, così libero, libero di poter spiegare le ali e volare via lontano. Ma quel giorno accadde qualcosa: uno dei bambini che giocava assieme agli altri si fermò e voltando il capo guardò in alto, là dove c’era lo sguardo vuoto e triste di Laura. Il bambino si avvicinò e la guardò. Laura spaventata si alzò dalla sedia e si allontanò dalla finestra, restando lontana per diversi secondi. La sua gola diventò secca e il suo cuore batté all’impazzata, un mix di felicità e di spavento la assalì come una bestia selvaggia e lentamente con titubanza si riavvicinò alla finestra, ma lo scenario che si palesò davanti a lei era quello di sempre: bambini che giocavano, gente che lavorava e l’immensa foresta che spiccava fino ad oltre l’orizzonte.
Richard
New York – Anno 2303
Erano passati trent’anni dal cataclisma e per quanto gli riguardava, il mondo era morto. New York un tempo ospitante milioni di persone era ora avvolta da una folta vegetazione e piante rampicanti che avvinghiavano i grattacieli. Dalla baia di New York si poteva vedere la Statua della Libertà, ormai un lontano ricordo, che si ergeva stanca ma ancora intatta, mentre nell’acqua due navi cargo affondate si erano arenate, mangiate dalla ruggine e circondate dalle alghe. C’era un afa incredibile e il sole di quella eterna estate bruciava come l’inferno. Uno stormo di uccelli si librarono in volo tutti assieme da un edificio vicino… qualcuno stava arrivando a disturbare la quiete di quel posto dimenticato da Dio.
Richard camminava lungo la 5th Avenue, schiacciando ciarpame e vetri rotti, facendosi strada tra i rottami delle automobili, ormai marce e arrugginite. Egli viaggiava con una tuta anti-radiazioni e una maschera anti-gas, con in braccio un fucile carico e pronto a sparare. Un viaggio estenuante, che lo portò ad attraversare città intere, pianure desolate e luoghi ormai abbandonati. Un viaggio durato ben tredici anni, in bilico tra la vita e la morte, tra domande sul perché fosse ancora vivo e sul perché il mondo ormai privo di vita lo tenesse inchiodato li. Aveva dimenticato i volti dei suoi cari, di sua madre e suo fratello ancora prima che il cataclisma arrivasse. Il giorno in cui la malattia arrivò Richard fu tratto in salvo da una troupe di scienziati e venne condotto in Alaska: l’unico baluardo umano rimasto sul pianeta e fu soggetto a diversi esperimenti. Il peggio sembrava essere passato e nonostante undici miliardi di persone fossero morte, Richard era ancora vivo. Restò al centro di ricerca Lotus fino all’età di diciassette anni, poi gli venne assegnata una missione speciale, che soltanto lui avrebbe potuto portare a termine.
Richard avrebbe dovuto viaggiare su tutto il territorio americano e recuperare gli ultimi ceppi ancora puri, per preservare le ultime volontà umane. Per ricordare i suoi obiettivi gli fu consegnato un enorme registro, con tutti i ceppi da recuperare sparsi per l’America. Era riuscito a recuperarli tutti, l’ultimo si trovava a New York. Fece notte, si accampò e accese il fuoco per riscaldarsi e l’unica compagnia che ricevette fu lo scoppiettare del legno ardente e il canto incessante dei grilli. Quando l’indomani si svegliò tornò in marcia e sempre in allerta, con il fucile in mano arrivò a destinazione. Era una immensa distesa di lapidi bianche, un luogo dove neanche la vegetazione più fitta era arrivata.
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Zack
Londra- 2016
Il semaforo era ancora rosso. Non importa quante volte Zack cambiasse frequenza alla radio c’era sempre la stessa identica musica. Canzoni senza neanche un testo, prive di qualunque tipo di originalità. Era sempre la solita solfa, le solite melodie riciclate all’infinito, eppure erano proprio quelle canzoni ad essere sempre sulla bocca di tutti. Alla fine, dopo numerosi tentativi sbuffò e chiuse la radio, il silenzio era molto meglio di stare a sentire quella roba. Era notte fonda, un paio di minuti dopo le due, le vie di Londra erano sempre affollate e una leggera pioggerella era da poco iniziata a calare, inumidendo le strade. Zack era appena uscito dal locale in cui lo avevano ingaggiato per una serata al pianoforte. Avrebbe dovuto essere felice, era da molto che non suonava davanti a così tante persone, ma il suo sguardo inespressivo dimostrava tutto il contrario.
Non importa quanto impegno, quanta emozione ci mettesse, per l’orecchio esterno quelle rimanevano solamente delle note. Non era la prima volta che si esibiva davanti a tante persone, ma nessuno aveva mai alzato lo sguardo verso di lui. La sua musica era solo un sottofondo, qualcosa di superfluo che echeggiava nel chiacchiericcio generale. Per quale motivo allora continuava a suonare? Perché perdere tempo a fare una cosa del genere? Irritato e demoralizzato Zack rientrò a casa, lasciò le chiavi sul tavolo e accese le luci del suo appartamento. Li nella sala c’era il suo pianoforte, lucidato e curato in modo maniacale. Zack si avvicinò e toccò la superficie dei tasti senza premerli.
«Questa è una maledizione…» Disse indignato. Era sempre stato lodato dai suoi genitori, dai suoi amici. “Hai talento, avrai un futuro come pianista”. Ma era facile parlare per loro che non capivano.
Il saper suonare, l’avere semplicemente un talento era una maledizione. Quando si è all’oscuro di tutto, quando non si conoscono i propri talenti, è molto più facile interagire con la società. Ma per coloro che invece fossero nati con una dote sarebbero stati incompresi, temuti, e nel caso di Zack ignorati. Suonare era la cosa più bella che gli fosse capitato nella sua vita, ma la verità è che ogni volta che lo faceva soffriva, perché lo confondeva, perché per lui era solo un benessere apparente.
Continua…
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