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Che poi bisognerà pure rendere merito a questo genere di produzioni. Sì, dico, una volta scrostata dagli occhi la patina di fighettismo imperante (si spera, ma qualcosa già si muove) e rimossa la voglia totalizzante di un immenso “volemose bbene” indie rock, immagino bisognerà pur rendersi conto che gente con notevole fegato nel sottobosco musicale italiano si muove con la destrezza di chi veramente sa bene cosa fare. Ma da prima, eh. Non dal 2008, non dai tempi del lodatissimo (a ragione, perchè no!) Vasco formato indie, non dal risciacquo CCCPiano da balera degli ultimi anni. Se non da sempre, quasi, insomma.
Nicola Manzan, violinista cannibale ma già chitarrista lotofago al servizio delle parrucche de Il teatro degli orrori (come direbbe qualcuno, il teorema dei Police riattualizzato: bene il primo, lascia stare il resto. Io dissento) nonché musicante di razza presso Alessandro Grazian e Non voglio che Clara (tralascio i nomi più noti perché il Veneto spacca il culo) torna col suo progettino da cameretta lisergica Bologna Violenta.
Ecco, ora io ne ho lette di panzane (Panzan?) in giro per il web, e di grindcore d’ordinanza giusto per fare numero ce ne hanno buttato in mezzo tanto come neanche la passata di pomodoro la domenica dai nonni. Una volta per tutte – non che mi piaccia fare l’inventore di generi musicali – ma si tratta molto semplicemente di uno di quei dischi che tanto deve all’hardcore italiano più spinto e meno codificato (insomma, quello più vecchiotto) quanto alla deviazione morale dei dj di hardcore digitale, japanoise, speedcore e chi più ne ha, più ne metta. Siamo fatti così, ci piace la stortura a tutti i costi.
Solo che probabilmente di tipacci poco raccomandabili come Manzan c’è poco da incontrarne in giro. C’è il dj pazzesco pieno di Zigulì che ti fa sballare come manco l’hard gabber quando io avevo quindici anni e a Milano già si moriva di pasticche (come passa il tempo), c’è il gruppo d’inscimmiati col chitarrista folle e la drum-machine a tremila ma sempre col bustone d’erba sott’occhio. Ma non c’è molti di violinisti-chitarristi-Tomas Milian-spaghetticore. Eh no. Non con quella disinvoltura pazzoide tipicamente italiana.
Tutto questo senza neanche aspettarsi lo straniamento un po’ troppo italiesco che ci aveva accolto cinico e infame (e violento) del precedente disco. Niente pseudo-colonne sonore per mondo movies, niente documentari sullo scappucciamento del pene in Giappone, niente banchetti infanticidi. Però il malessere resta. È sempre nella musica più crudele e spiazzante (ma meno trash cool), sempre marcato da scelte deliranti come la guida primaria delle canzoni di tanto in tanto affidata ai violini al posto del classico riff-guida hardcore. C’è ancora quel senso di disillusione fulciana in quelle musiche un po’ disperanti, angoscianti e tipicamente italiane. C’è anche del nuovo, un ché di elaborato e freddamente studiato che sorprende l’ascoltatore quando già credeva di imbattersi in un disco che avrebbe semplicemente bissato il macello “serie B” de “Il nuovissimo mondo”.
Ma il senso classico di fastidio antiumano a fine disco ti coglie ancora. Un’apocalisse in gocce anzi no, in bustine di pestilenziale sonnifero.
Gli Agoraphobic Nosebleed sono la metanfetamina? Bologna Violenta è fumarsi crack nelle cabine telefoniche. Un po’ ottantiano forse, ma pure squallidamente contemporaneo. La benedizione ce la da la cover da capogiro di Valium Tavor Serenase dei CCCP cantata da Aimone Romizi (come fosse antani) dei Fast Animals and Slow Kids e la scheggia drum-machine gun sbraitata da J. Randall dei sempre siano lodati (e sullodati) Agoraphobic Nosebleed.
Stare male a Bologna.
Nunzio Lamonaca per Mag-Music
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