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Pisani con la malattia dentro. Ovvero quel disagio che porta tani a scegliersi le strade più improbabili, difficili e scomode pur di dar pace a quel corpo estraneo che invade l’anima e ne mangia un pezzo al giorno, creando sempre più ansia e voglia di combatterlo urlando contro il vento.
Bella intro, vero?
In realtà la band, in giro già da un po’ di tempo, la conosciamo meglio da marzo circa, perché sceglie Bandcamp – come molti fanno in ossequio al passaparola “internettiano” – per diffondere gratuitamente queste schegge di sconfitta esistenziale in forma di post-hardcore. E la conosciamo anche perché dentro ci suona la batteria il nostro amichetto Nicola, conosciuto poco tempo fa quando abbiamo preso quella “tramvata” in faccia premendo play (e poi ancora play, e poi ancora…) alla voce “Gottesmorder”.
Musicalmente la band è cresciuta parecchio, ha dato nuova forza alle liriche scegliendo l’italiano (come stanno facendo in molti, a riprova che l’underground è ancora fiero e oserei dire molto fertile) come materia aggiunta alla già compromessa realtà del suono. Non si torna indietro, c’è passata troppa vita su quei riff, su quei riverberi che occhieggiano al passato comune di centinaia di ragazzi. Siamo ancora vicini, troppo vicini anzi uniti indissolubilmente a quelle esperienze screamo italiane che ormai tutti conoscono, a riprova che i suoni si rinnovano ma la lunga genesi dell’hardcore è sempre più un fatto di territorio che di continuità stilistica. Ma siamo anche vicini spalla contro spalla a melodie languide, gentili, vagamente psichedeliche, e di certo non ignare di quel friccicore alternative e grunge che anche in Italia ha regnato a lungo.
L’intoppo sonoro, lo gnommero, la matassa di suggestioni però non sfonda mai il suono con l’”indecenza” tipica delle produzioni più violente, al contrario tenta di mantenere sotto controllo e in costante equilibrio tra violenta danza e trip mentale tutti quegli elementi prossimi ad esplodere da un momento all’altro. Chitarre cangianti e versatili, aggressive ma non sconquassanti, per esempio, il tutto teso a rendere palpabile e concreta l’ansia che aleggia sul disco. Una prestazione al microfono che tradisce esattamente questo difficile contenimento della rabbia, ondeggiando tra paranoia un po’ baritona, urla rotte in gola e repentini strappi singhiozzanti.
Il linguaggio umano come il più esemplare degli equivoci, metafora assoluta del mondo immobile della storia di ieri, di oggi e di sempre (l’hardcore come ciò che è stato e sempre sarà, sempre uguale a se stesso) e al contempo metafora del tragitto infinito che porta in ognuno di noi quei cambiamenti che sono essenza stessa della nostra persona.
È così che va. È come quando abbiamo ascoltato i Marnero e ci è parso di dover ricollocare ogni singolo riff in una precisa esperienza musicale di almeno dieci anni prima, ma non lo abbiamo comunque fatto. Con i Chambers siamo da quelle parti: ironici manipolatori dei linguaggi di ieri, troppo consapevoli di questi per abbandonarsi all’impatto frontale, incredibilmente abili nel rinnovare e riproporre ancora oggi la stessa autentica voglia di catarsi.
È l’hardcore.
Nunzio Lamonaca per Mag-Music
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