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A quattro anni dal curioso “Council from Kaos”, si riaffacciano sulle scene i quattro genovesi con la loro ultima fatica. Il meritevole sequel in versione patinata riesce a spiazzare per intensità emotiva: quattro anni d’attesa, e si capisce il perchè. I Demetra Sine Die dimostrano e ostentano una capacità fuori dal comune nell’intrecciare trame suadenti con ossatura granitiche. Ritmi roboanti che incalzano, corde che graffiano in profondità, atmosfere surreali e a tratti noir (gli armonici di Distances lo confermano): sono gli ingredienti principali della pietanza servita su un piatto che richiede una certa ingordigia per poterlo gustare appieno. Come dicevamo, ritmi tellurici e cubici sostengono l’intero lavoro; ad arrotondarne li spigoli intervengono le voci eteree di Marco Paddeu, protagonista alla chitarra nelle incursioni dark, mai invadenti e mai al di sotto della portata. Il disco non è di facile presa, ma questo non è un difetto; anzi, la sequenza delle tracce sembra quasi voler disorientare l’ascoltatore, e ci riesce benissimo.
Se non fosse per la produzione che delinea una cura maniacale di altissimo livello, potremmo quasi azzardare un sottile filo conduttore che riporta alle edizioni più stralunate di provenienza Skin Graft. Per dirla tutta, sembra di avere a che fare con una papabile uscita postuma di gente come Dazzling Killmen o Colossamite, ma con quel tocco di finezza e intelligenza in più che alle band di Chicago mancava; meno Tool di quello che si possa pensare, anche se il paragone con i losangelini potrebbe scappare. Niente di tutto ciò; “A Quiet Land” of Fear vive di luce propria, sarebbe ingiusto imprigionarlo nella solita scatola cinese dove scatta la caccia feroce all’influenza. I Demetra avvolgono e seviziano al tempo stesso, l’album sembra concepito per attanagliare il malcapitato nelle spire di un unico concept, tant’è che il susseguirsi dei brani è quasi impercettibile; un’unica mastodontica spina dorsale le cui vertebre pulsano e vibrano scosse da arrangiamenti che irradiano sensazioni sinistre e metafisiche.
Lontani da tutto: dalle catene dello stoner, dalle ossessive ricette del doom, dal revisionismo del metallo, dalle forme più canoniche del rock… da tutto ciò, in sintesi, che tanto odora di trendy, i nostri quattro meriterebbero di poter riscrivere le sorti dell’underground tricolore. Che la Bloodrock Records fosse in grado di distinguersi da qualche anno a questa parte per le sue mosse azzeccate, era già dato assodato. Con i Demetra credo si siano giocati il poker d’assi vincente. Avevamo bisogno di un disco così? Assolutamente sì.
Rudy Massaro
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