The Gentlemen's Agreement – Apocalypse Town
Sogno o (possibile) realtà? Il loro terzo disco è una riflessione in musica sul sistema fabbrica che riassumerei in questo modo: non c’è cosa più bella della libertà.
Libertà di vivere al ritmo del proprio corpo, e non secondo i tempi inumani imposti dalla logica del produrreprodurreprodurre (produci consuma crepa, avrebbero detto i CCCP). Libertà come tempo per guardarsi dentro, scoprirsi e finalmente capirsi. Libertà di vivere con lentezza al tempo armonico della natura (consentitemi la parafrasi di Enzo Del Re). “Noi lavoriamo e produciamo, ma il tempo ride e se ne va. Noi dipendiamo, ci consumiamo, ma il tempo ride e se ne va” cantano mesti gli operai della fabbrica di “Apocalypse Town“, e mentre lo fanno mi viene in mente Tempo degli Almamegretta, altro invito alla lentezza.
L’affinità tuttavia è solo nelle idee perché altri sono i riferimenti musicali dei The Gentlemen’s Agreement. Secondo Raffaele Giglio, mente e cuore pulsante dei partenopei oltre che voce e chitarra, l’album è stato influenzato in maniera decisiva dai ripetuti ascolti del compositore brasiliano Tom Zé. E in effetti il Brasile c’è e si sente (e tanto anche: Rumore su rumori, Adeus) approfondendo il discorso intrapreso nel 2011 con “Carcarà”.
Al suono acustico del precedente LP si è deciso di affiancare il clangore di strumenti auto-costruiti (figura anche un psycho sitar, comunicato stampa alla mano) e rumori assortiti per ricreare l’ambientazione della fabbrica. Scelta questa molto indovinata perché aumenta il coinvolgimento durante l’ascolto.
Gli stridii metallici spingono l’ascoltatore dentro “Apocalypse Town”, e contemporaneamente accompagnano il protagonista, un operaio anonimo, dall’attimo in cui mette piede in fabbrica – anzi da prima, da quando la sveglia alle tre del mattino interrompe l’ennesimo sogno (Moloch!) – fino a alla momento in cui deciderà di sottrarsi a questa realtà, decretandone la chiusura. Chiusura che getta nel panico qualcuno, come sta accadendo a Piombino in questi giorni, ma che stimola anche la fantasia di altri. E allora via con la piantagione degli orti in città (KABOOM! Chiude la fabbrica). Anche nel grigiore urbano riprende a scorrere la vita. I ritmi ritornano umani. Naturali. (“Siedi, vivi, prendi il tuo tempo, non l’hai fatto mai”, Come l’acqua). E di conseguenza la musica diventa più ariosa, meno ossessiva. Allegramente libera (Adeus, Il tempo del sogno, Evoluzione).
Lo sviluppo narrativo è ben sostenuto dai fiati, utilizzati ora come accompagnamento ora come sottolineatura ora in funzione catartico-solista (Mordi! Vivi! Prendi!, la coda free-jazz di Adeus). Alla mente viene l’uso che ne fanno (con tutti i distinguo di genere musicale) gli Osanna in “Palepoli“. La natura di concept richiederebbe un ascolto delle 14 tracce (di cui quattro strumentali) nell’ordine suggerito dai TG’sA. È vero che alcuni pezzi possono vivere, e lo fanno, anche di vita propria (si pensi al primo singolo estratto, Dire… Direttore) ma inseriti nell’opera acquistano, e nel contempo donano al tutto, maggiore forza.
Infine sorprende, e in positivo, non tanto il passaggio all’italiano (già anticipato nell’EP “Da… da… da quando ci sei tu”) ma come Raffaele Giglio sa rendere liquida la nostra lingua calandola nella strutture musicali senza che queste ultime ne siano sopraffatte. Suoni e parole sono indissolubilmente legate. Il senso del primi è dimezzato senza le seconde, e viceversa. E l’equilibrio che li lega, permette di apprezzare sia il concept sviluppato sia di chiudere gli occhi e abbandonarsi al ritmo, alle melodie.
Christian Gargiulo
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